19 marzo. A mio padre, a tutti i padri. 


di Roberto PECCHIOLI

Quasi ogni giorno è la ricorrenza di qualcosa: ci sono varie giornate della "memoria", la festa della mamma, quella della donna, il dì degli innamorati, Halloween e non so quante altre. Ne manca una, ed è l'assenza più dolorosa e bruciante, il segno preciso di un mondo invertito. Nessuno celebra, o almeno ricorda, il padre. Ci sarebbe il 19 marzo, San Giuseppe, il padre putativo di Gesù, ma a nessuno interessa. Figurarsi, festeggiare il padre, per di più in una ricorrenza religiosa cristiana. Però è normale: il padre è il Grande Assente, il soggetto smarrito di questo tempo bastardo. Bastardo, sì, non orfano. L'orfano ha perduto i genitori e li rimpiange, il bastardo non sa da dove viene e non gli interessa.

Chi scrive deve parlare in prima persona e oggi 19 marzo sente il dovere di ricordare il padre, il suo, e con lui tutti i padri. Mio padre si chiamava Francesco come il nonno, Cecco toscano giunto a Genova con il carico di otto figli maschi per realizzare i giochi d'acqua nel giardino di una villa nobiliare. Ancora oggi, non posso transitare accanto a Villa Durazzo Pallavicini, a Pegli, senza essere orgoglioso di quel piccolo contributo del bisnonno alla Bellezza. Era bello quando nelle generazioni si ripetevano i nomi dei nonni: segno di continuità, di amore per le radici e, concretamente, per le persone che ci avevano messo al mondo, anzi, all'"onore del mondo".

Si sarebbe chiamato Francesco, o Aldo- il secondo nome di papà- il figlio che non ho avuto. Mio padre morì prematuramente quarant'anni fa, e mi manca ancora. Non era un grand'uomo: solo un padre, un marito, una persona per bene. Non ebbe bisogno di troppe parole per educarmi: bastava l'esempio. Quello lo ha dato ogni giorno della sua vita. Onestà, dignità, lavoro ben fatto. Se posso permettermi un confronto azzardato, mi viene in mente la descrizione del cardinal Borromeo nei Promessi Sposi: una vita che era "il paragone delle parole". I principi che porto nell'anima li ho avuti da questo padre che lavorava di notte - sei notti la settimana per oltre trent'anni - che aveva combattuto in guerra per cinque anni e sofferto da bambino la condizione di orfano.

Dio, patria e famiglia: questo mi ha trasmesso Francesco Aldo. Che vita di m..., scrisse su un cartellone l'esimia deputata Cirinnà. No! Papà mi ha insegnato a rispettare la famiglia, ad amare l'Italia, il cui simbolo era il cappello alpino che conservava come una reliquia, a essere cristiano. Che vita orribile, il mondo senza Dio, con la famiglia frantumata, travestita in mille modalità sconcertanti, senza una bandiera e una patria da portare nel cuore.

Patria, terra dei padri, ma i padri non ci sono più. Sono stati travolti dal fatale Sessantotto. Erano l'autorità, la legge, la trasmissione dei valori, il cemento della comunità, il filo della continuità. Erano anche la tenerezza di insegnare, mostrare la via, la dignità e l'onore di proteggere i figli e la famiglia, esserne responsabili, sacrificarsi per loro. Papà ha lavorato migliaia di notti, in piedi al banco tipografico di un giornale, nel calore del piombo da stampa, per dare un futuro a me.

Erano belli quei dialoghi nel primo pomeriggio: ti eri appena svegliato, una vita capovolta dal lavoro notturno. Parlavamo di tutto, delle grandi cose e di quelle piccole, e adesso so che sono i ricordi più belli della vita. La domenica sera, unico giorno in cui eri a casa, ti assicuravi che avessi pregato, almeno un'Ave Maria. Era il dovere di ogni bambino salesiano, un figlio di Don Bosco come te. I più bei pomeriggi della domenica erano alla stadio, in gradinata, a tifare Sampdoria senza odiare gli avversari, perché così mi avevi insegnato. L'abbraccio più forte, di cui sento ancora il calore, me lo desti quando subii una grave ingiustizia: eri dalla mia parte, insieme avremmo superato tutto. Ricordo lo smarrimento, la bocca che non si apriva quando seppi che eri morto, all'improvviso, ancor giovane, mentre chiedevi il tuo solito caffè.

Niente, non devo ricordare, non posso commuovermi né amarti, perché il padre è il grande malvagio di questa civilizzazione al tramonto. Hai perso: ti hanno smascherato. Eri autoritario, padrone, maschilista, violento. Forse parlano di qualcun altro, non eri tu, non sono così milioni e milioni di padri. Iniziò un medico viennese, Sigmund Freud, inventando il conflitto tra padre e figlio "per il possesso della madre ". Pare che non abbia mai visitato il bimbo da cui prese spunto- conosciuto come "il piccolo Hans" - limitandosi a registrare le impressioni del padre, suo cliente. Spiegò che si diventa adulti uccidendo simbolicamente il padre, un'altra scempiaggine. Eppure, su queste follie si fonda quel che resta dell'Occidente.

Lo spirito del Sessantotto fece il resto: il padre è l'autorità, l'autorità è il male, dunque va distrutto. La missione è compiuta e la società senza padri corre verso il basso a velocità crescente. Diventa, come è ovvio, società senza figli: reciso il filo, perché diventare a nostra volta padri? Dilaga l'irresponsabilità: molti genitori si sono accomodati di buon grado nella nuova situazione. Disinteresse, fastidio per i figli da parte di troppi padri, l'abbandono che un tempo era circondato dalla più intensa riprovazione sociale. La fuga o la triste funzione di bancomat: è tutto. Oppure, il ruolo di "mammo", l'imitazione grottesca della cura materna.

In più, il padre non ha voce in capitolo nelle triste decisione dell'aborto, come se quel grumo di cellule vive non fosse per metà suo. Hai perso, papà, ma per chi ti ha gettato nella spazzatura è una vittoria di Pirro. La società senza padri è senza centro, senza passato, senza futuro e senza legge. Il padre insegnava il giusto e l'ingiusto, indicava il limite e impartiva il castigo. Oggi siamo vittime del complesso di Telemaco, il figlio di Ulisse che voleva il ritorno del padre.

"Telemaco si accorge di essere adulto quando esclama: il bene giudico, e il male. Anche in assenza dl Ulisse, il deposito ha resistito: le radici profonde non gelano. Un sistema può sopportare molte mutilazioni e restare se stesso: ma se l'assenza del padre si protrae, si interrompe il ciclo, si tolgono gli esempi, un ordine si perde. I padri sono la legge, i custodi delle regole valide per tutti; le madri sono l'amore, l'eccezione a favore dei propri figli. Questa distinzione dei ruoli è alla base della nostra società: ma i padri sono stati aboliti, spiazzati dalle panzane psicoanalitiche, dall'aggressività femminista, dall'implosione della famiglia dall'indifferenza al divino, dalla confusione generale, dalle mescolanze di infiniti veleni. Alle madri è proposto di essere sterili." (R. Pecchioli, Elogio dell'appartenenza; Passaggio al bosco, 2020).

A questo siamo arrivati, per questo il 19 marzo, San Giuseppe, giornata del padre, non interessa nessuno, non le sono dedicate trasmissioni televisive e retorica istituzionale, ma soprattutto una riflessione che riporti il padre- l'uomo che genera figli, li educa e li guida sulle strade della vita- al ruolo fondamentale che ha avuto per millenni. Scriveva Nietzsche in Umano, troppo umano: "se non si ha un buon padre, si deve procurarsene uno ". L' homo viator, viandante della vita, ha bisogno di un bussola che mostri il cammino. Senza padri, la bussola va impazzita all'avventura, e il calcolo dei dadi più non torna "(E.Montale).

Così ha voluto così questo tempo bastardo, ma io ringrazio Francesco Aldo e abbraccio tutti i padri del mondo, dedicando loro il gesto di Ettore, il re troiano che prima della battaglia decisiva contro Achille l'invulnerabile, abbraccia la moglie, saluta i vecchi genitori, leva in alto sopra la testa il figlioletto Astianatte e così prega. "Giove pietoso/ E voi tutti, o celesti, ah concedete /Che di me degno un dì questo figlio/ Sia splendor della patria e de' Troiani/Forte e possente regnator. Deh, fate/ Che il veggendo tornar dalla battaglia/ Dell'armi onusto de' nemici uccisi, /Dica talun: non fu sì forte il padre. / E il cor materno nell'udirlo esulti."     

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