L’anti Sanremo Roberto PECCHIOLI
L’anti Sanremo Roberto PECCHIOLI
Sanremo è una sineddoche e una metonimia. Che dice lo scrivano pazzo, si meraviglia il lettore, convinto del disagio mentale di chi firma queste note ? Le due parole arcane, conosciute solo da un pugno di pedanti sfaccendati, descrivono altrettante figure retoriche. Riecco l'astruseria autocompiaciuta! In parole semplici, sono i meccanismi –linguistici e psichici - per i quali , dopo aver associato due realtà differenti ma dipendenti o contigue, si sostituisce la denominazione dell'una a quella dell'altra ( sineddoche). Sanremo non è più una città, ma un evento nazionalpopolare, il festival per eccellenza. E' avvenuto cioè un radicale cambiamento di nome e significato (metonimia), l'artificio retorico consistente nel trasferire un termine dal concetto cui appartiene: il contenente per il contenuto (città anziché manifestazione musicale) .
Detesto Sanremo, nel senso di festival, perché amo quella splendida città e perché mi stringe il cuore vedere un appuntamento - che non rappresenta neppure il meglio della musica italiana- assurgere a paradigma dell'Italia contemporanea. Il palco dell'Ariston, un cinema teatro di provincia che nel resto dell'anno ospita la normale programmazione, diventa per una settimana la vetrina dell'Italia intera, la rappresentazione, celebrazione, esibizione, di ciò che siamo diventati e di quello in cui ci stanno trasformando. Le canzoni sono soltanto l'espediente a uso dell'Italia televisiva. A Sanremo- festival partecipano (quasi) tutti: opinionisti, esperti di tutto e di niente, influencer, avventurieri, nani e ballerine, la polvere di stelle di una nazione allo sbando. Obbligatoria la correttezza politica, il progressismo d'accatto, la strizzata d'occhio compiaciuta a tutti i luoghi comuni del presente: una spruzzata omosex, un' allusione rigorosamente progressista, "de sinistra", tra conferenze stampa, pre-festival, dopo festival, eventi collaterali, la sfilata di ogni stranezza spacciata per novità, segno dei tempi, addirittura arte. La musica funge esclusivamente da colonna sonora di un happening metà situazionista e metà fiera postmoderna. Venghino, venghino, più gente entra, più bestie si vedono.
Padrona di casa, chaperon, Pigmalione, ufficiale pagatrice e gran ciambellana è Mamma Rai, simbolo della Patria divenuta "matria". Perché Sanremo è Sanremo, grida lo slogan, che non si riferisce alla città dei fiori, del Casinò e dell'eterna primavera, ma al circo Barnum dell'Italietta decadente. Poco conta, tranne che per l'industria musicale, chi vincerà la competizione canora, tra giurie popolari ed esperti su cui è lecito avanzare fieri dubbi: conta esserci. Esserci, appunto. Da protagonisti ma anche da spettatori, comparse, sosia en travesti dei personaggi famosi, addetti dalle funzioni misteriose con cartellino al collo. Valgono più le conferenze stampa che le prestazioni musicali. La cantante Elodie afferma che non voterebbe Fratelli d'Italia neppure se le mozzassero la mano. E chi se ne frega, dopotutto? Il gran cerimoniere di turno, Carlo Conti, deve rispondere in conferenza stampa al quesito da un miliardo di dollari: è antifascista? Ovvio che si dichiari tale: la paga è ottima e la carriera al massimo, anche se il conduttore fiorentino ha un sussulto di onestà intellettuale e rimarca l'anacronismo della domanda, fuori luogo e fuori tema. Ma l'Italia di Sanremo celebra innanzitutto se stessa, si rassicura nei suoi postulati e nelle proprie idiosincrasie.
Della musica chi se ne frega, il baraccone è montato a scopo di propaganda. Deve stupire il pubblico, alimentare le liquide certezze dell'Italia terminale, ridotta a community televisiva, un gregge cui è somministrata una robusta dose di autocompiacimento mascherato da gara musicale. Il gioco funziona, purtroppo, nonostante la povertà artistica – o forse proprio per quella- e nonostante l'evidente natura di parte dei messaggi sociali, politici e di costume che diffonde.
Non c'è concorrenza, innanzitutto. La competizione – mantra e vangelodella narrativa postmoderna- cessa per una settimana, tra le reti. Spicca la voluta povertà dei palinsesti degli altri player del broadcasting ( piaciuto il doppio termine anglo saputello per indicare le televisioni diverse dalla Rai?) . Tutt'al più, si comportano come il cuculo che fa covare da altri le proprie uova, parlando di Sanremo quanto la televisione pubblica che ci ha investito. Non si sfugge al festival a meno di evitare per una settimana e più radio, TV , giornali, luoghi di ritrovo e di lavoro. L'evento è quello e solo quello, ogni eccezione rimossa, un'arma di distrazione di massa a cui non ci si può sottrarre. La nazione in miniatura con epicentro provvisorio all'Ariston, Corso Matteotti 212: Sanremo capitale d' Italia pro tempore con i talk show e le conferenze stampa come parlamento .
A pochi metri dalla storica location fa bella mostra di sé il monumento che meglio definisce Sanremo (non la città, l'Evento, sempre metonimia e sineddoche), la statua in bronzo di Mike Bongiorno, re del festival quando era solamente musica, canzoni , una certa affettata eleganza alto borghese; il conduttore-direttore artistico ( che parola grossa!) si chiamava modestamente presentatore e portava una cartellina per non sbagliare i titoli dei brani, i nomi di cantanti, autori e direttori d'orchestra. La cartellina nel monumento ha una sola parola, allegria con il punto esclamativo, il saluto del celebre personaggio televisivo. Allegria di naufraghi, nel caso dell'Italia vista dal prisma di chi non ama il festival. Di qualcosa occorre pur compiacersi: l'orgoglio di Sanremo-Evento è il vecchio Mike. Vendono cartoline con il suo monumento. Non risulta che analoghi omaggi abbiano ricevuto un importante scrittore del Novecento- Italo Calvino- o Gian Domenico Cassini, grande astronomo e scienziato del XVII secolo. Due sanremesi (i locali dicono sanremaschi) a cui è tributato meno onore che a un uomo di spettacolo. Perché Sanremo è Sanremo, ossia un brand televisivo nazionalpopolare che offusca la città e che l'amministrazione civica sfrutta come può.
Chi scrive è stato a Sanremo per un convegno dieci giorni prima dell'inizio della kermesse (poco) musicale: la città era già militarizzata. All'uscita della stazione ferroviaria sotterranea il biglietto da visita è imbarazzante: l'interminabile budello che conduce dai binari all'uscita ha otto tappeti mobili, ma ne funzionavano tre. E' solo il primo disagio; la città era già militarizzata: polizia, carabinieri, guardie private dappertutto. Paga la Rai, ossia gli abbonati obbligatori, o pagano i contribuenti, che poi sono le stesse persone ? Attorno all'Ariston – davanti, dietro, nelle strade adiacenti- dappertutto sceriffi privati, la vicina piazza Colombo da tempo occupata dall' enorme palco per il dopo festival, con grande fastidio dei residenti e di chi utilizza l'autostazione sottostante. Una nostra amica musicista ( a Sanremo è quasi obbligatorio…) sbotta che nel lungo periodo del festival la sua scuola musicale – vicinissima all'area occupata dalle installazioni del Grande Evento- rimane semideserta per il disagio di raggiungerla. Piccoli danni collaterali.
Intanto, il gioco funziona; la Rai stravince le sfide degli ascolti , aumentando così le tariffe delle inserzioni pubblicitarie. Gli sponsor investono bene i loro soldi, il mainstream culturale – a dispetto del colore del governo- continua a dominare nei messaggi e nella rappresentazione della società. Segno che il pubblico è soddisfatto, o almeno addomesticato. E' questa la funzione vera del festival, che giustifica spese e battage . Noi stessi siamo costretti a parlarne, mentre la carovana va. Inutile, vero, amico lettore, chiederti, implorarti di trascorrere diversamente le tue serate di febbraio ? Una sana lettura, un dialogo familiare, l'ascolto di buona musica ( piuttosto rara all'Ariston) una cenetta in un ristorante svuotato dall'audience di Sanremo, un cinema o un teatro – anch'essi semivuoti, temiamo- qualunque cosa, ma non portiamo il cervello all'ammasso del baraccone amministrato dalla Rai. Tanto, se ci piace la musica leggera, le canzoni le ascolteremo per mesi sino all'estenuazione. Il resto, cioè gran parte della rappresentazione, meglio risparmiarselo. Voce di chi grida nel deserto: che te lo diciamo a fare? Sanremo è Sanremo.